I resti mortali di monsignor Palermo nella chiesa di San Vito

Avvocato Luigi Mamone
La testimonianza dell’avv. Luigi Mamone, che a quel tempo assistette al ritrovamento

Gentile direttore,

ho avuto modo di leggere ed apprezzare la pubblicazione che da qualche tempo è stata realizzata a Molochio. Devo dire che “La voce di Molochio” è molto ben strutturata, con una bellissima grafica e contributi assai interessanti. Auguro pertanto i migliori successi all’iniziativa. Vorrei, se mi sarà consentito, soffermarmi brevemente sull’articolo di Maria Immacolata Dunia, dal titolo “I segreti della Chiesa Vecchia – Alla scoperta del patrimonio artistico, perduto e non, della Chiesa di San Vito”. Un articolo interessantissimo, che collima in molti punti con narrazioni che in anni ormai lontani ebbi modo di ascoltare (ivi compreso il racconto del non necessario abbassamento delle pareti del tempio dopo il terremoto del 1908). L’articolo mi ha particolarmente coinvolto, anche perché nella mia vita la Chiesa di San Vito è stato sempre un punto di riferimento ben preciso, essendo vicinissima alla casa della mia famiglia materna, la famiglia Alessio, che sorge proprio accanto alla chiesa di  San Vito, dimora settecentesca architettonicamente molto  interessante e  che un tempo era addirittura collegata con la Chiesa attraverso una sorta di ponticello coperto, simile a quelli che si vedono spesso a Venezia,  al fine di consentire alle donne della famiglia Alessio di entrare nella parte alta della chiesa, dove avevano posti loro riservati, senza dover uscire fuori dal palazzo. L’articolo incentrato sulla Chiesa di San Vito e, soprattutto il riferimento a monsignor Palermo, hanno suscitato in me il ricordo di un evento, di cui fui testimone, che credo sia particolarmente importante e sul quale vorrei soffermarmi, ossia il rinvenimento ai piedi dell’altare maggiore di un’antica sepoltura che fu detto, potesse essere e probabilmente era, quella di monsignor Palermo.

In quegli anni trascorrevo spesso parte delle mie giornate a Molochio con zio Nicola, un fratello di mia madre, al quale ero legatissimo. Il 22 febbraio del 1978 – come scrissi in un diario che tenevo in quegli anni e che, fortunatamente, non essendo andato perduto, oggi si è rivelato di grandissimo aiuto nel ricordare la vicenda, costituendo una testimonianza scritta di quella scoperta, e di ciò che ad essa fece da corollario – era un giorno grigio e piovigginoso. All’improvviso, nel pomeriggio, giunse la notizia che nella chiesa di San Vito, al cui interno erano in corso dei lavori (allora assai criticati perché in nome di una modernizzazione senza senso avrebbero privato il presbiterio delle balaustre deturpando l’originaria bellezza e l’armonia dell’insieme architettonico neoclassico) fosse stata ritrovata un’antica sepoltura. La tomba era situata sotto il pavimento, ai piedi dell’altare maggiore.  In quel diario io scrissi i particolari di ciò che venne ritrovato e le congetture che furono allora fatte, sulla base di ricordi tramandati oralmente dagli anziani del tempo e di opinioni e analisi certamente agiografiche ma cionondimeno suggestive. La tomba era posta al centro del presbiterio davanti l’altare maggiore (dove oggi vi è un altare moderno).  Si vociferava da parte di taluni, essere la tomba di un non ben identificato vescovo; da parte di altri essere invece quella di don Giovanni Alessio, capostipite seicentesco della famiglia di mia madre, forse fondatore della chiesa o mecenate munifico per la sua edificazione.

La chiesa, a parte la distonia causata dell’abbassamento delle mura perimetrali, vero sfregio alla bellezza architettonica di una struttura imponente, appariva in quel tempo ancora integra nella sua strutturazione architettonica. Ai piedi dell’altare maggiore, il cui pavimento di marmo era stato completamente asportato, si notava la cripta casualmente scoperta a causa dei lavori e nella quale, chissà quanti anni prima, era stata deposta una bara i cui resti erano così ritornati alla luce. All’interno della chiesa che cominciava ad essere invasa dalla penombra c’erano, lo ricordo ancora, un muratore e il suo aiuto, un ragazzo di circa 15 anni, intenti a cernire la sabbia da un cumulo poggiato sull’area interessata ai lavori.  Cercavano di ritrovare una delle due pietre di un anello d’oro bianco, appartenuto al defunto e che, staccatasi dall’incastonatura, era stata smarrita fra la sabbia. Un altro operaio mostrava ai curiosi con un certo sussiego i chiodi di forgia che un tempo tenevano unito il legno della bara ormai marcito. Dai resti di un abito talare ridotto a brandelli corroso e scolorito, e dall’anello, dedussi che non potesse trattarsi dell’antenato, ma quasi certamente di un prelato. L’anello, come pure le fibbie delle calzature e una protesi dentaria costituita da un ragnetto d’oro con dente, avvalorava l’ipotesi del Vescovo o quantomeno di una gerarchia ecclesiastica. Un po’ suggestionato dai discorsi che si andavano facendo riguardo all’identità di quei resti e dalla penombra che aveva quasi completamente invaso la chiesa, mi avvicinai al bordo della cripta per osservare meglio quanto il sepolcro mostrasse. Restavano soltanto un frammento della volta del cranio, due o tre denti e due pezzi delle tibie ricoperti da una patina rossiccia che risaltava lugubremente nella penombra. E un ciuffo di peli anch’essi rossicci. La vista di quei resti era abbastanza forte e fu per tanti fonte di riflessione sulla finitezza della vita umana. Ci trovavamo davanti ai resti di una persona della quale s’ignorava il nome, chi fosse stata, come avesse speso la sua vita.

Si diceva fossero i resti di un vescovo ma, altri sottolineavano, Molochio non fosse mai stata sede di diocesi. Era senza dubbio un ecclesiastico: i resti dell’abito talare lo attestavano. Ma come mai era sepolto lì, nella chiesa di San Vito e non nella cattedrale di San Giuseppe? Esclusa anche l’ipotesi di un ecclesiastico fra gli appartenenti alla famiglia Alessio restavano poche ed astratte ipotesi, tutte senza alcuna base probatoria di spessore. Molti erano stati colpiti dalla forma dell’anello. Una strana forma a spirale, con due pietre agli estremi di un fregio, e dal colore rossiccio del ciuffo di capelli trovato nella sepoltura. Così alcuni giorni dopo, rovistando nei sotterranei e nelle sacrestie delle due Chiese si pervenne, come mi fu comunicato, alla conferma di un dato di fatto che molti avevano inizialmente escluso, che quelli fossero i resti di un vescovo. L’ipotesi era stata inizialmente scartata perché non era stata trovata nella tomba la catena, caratteristica, insieme all’anello, della dignità vescovile. Le ricerche avevano infatti fatto ritrovare nella Sacrestia un calice con un fregio identico a quello dell’anello ed anche un dipinto raffigurante il prelato, dai capelli rossicci con l’anello e la catena. I resti furono così identificati come quelli di monsignor Palermo, un prelato vissuto nel XVIII secolo, vescovo forse di Santa Severina, originario di Molochio dove era venuto a trascorrere gli ultimi anni di vita.  Si dice che le sue spoglie fossero state seppellite dapprima nella cattedrale di San Giuseppe dalla quale in seguito ad un terremoto, forse nel 1783, furono traslate in San Vito. Questo spiegherebbe anche la mancanza della catena, sottratta in chissà quali circostanze. La notizia dell’identificazione, con tutti i particolari, mi fu comunicata dopo diversi giorni. Grande fu, anche se riuscii a celarla, l’emozione nel sapere a chi fosse appartenuto quell’anello che anch’io quel giorno avevo per qualche momento tenuto in mano.

L’occasione credo che sia propizia per ribadire la necessità di tutelare e valorizzare nel modo migliore possibile il tessuto storico e della città d’arte di cui Molochio è espressione, e che merita di essere tutelato, valorizzato e difeso essendo anche, è bene ricordarlo, un possibile volano per il rilancio dell’economia di un paese che, come pochi in Calabria, può a buon titolo ambire di guardare anche al turismo culturale come credenziale di una, spesso sottovalutata, proposta turistica.

Luigi Mamone